Intervista a Cataldo Valente


Le opere dell’artista-artigiano in mostra a Firenze

di FRANCESCA JOPPOLO / Wall Street International Magazine ARTE

Sbirciare dalla finestra le tele con le ciliegie e le pere di Bartolomeo Bimbi appese all’Accademia dei Georgofili, andare in Santa Croce due o tre volte al giorno. Ecco i balocchi di bambino di Cataldo Valente a Firenze.

Pensa che da casa mia, guardando nella prima parte del Corridoio Vasariano, si intravedeva qualcosa del Domenichino e “I giocatori di carte” di Bartolomeo Manfredi”.

Anni Cinquanta. Cataldo piccolo aveva tanto tempo a disposizione e si divertiva con l’arte. Pugliese di nascita arrivò, ambientazione sociale alla “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti, a pochi metri da Palazzo Vecchio quando aveva due anni e mezzo, ignaro che la bellezza avrebbe influenzato il suo destino. Le elementari in collegio a Settignano in una villa stupenda che, si rammenta, era stata dei genitori di Aldo Palazzeschi. “Fra Settignano e Fiesole sono nati tanti scultori della storia dell’arte: Rossellino, Desiderio, l’Ammannati. Michelangelo si vantava di aver succhiato lì il latte dalla moglie dello scalpellino. Perché c’erano le cave di Maiano, di Monte Ceceri. Già da piccini eran tutti lì con lo scalpello in mano a cercare pietre”. 

Si definisce artista-artigiano ed espone fino al 31 dicembre al Museo di Antropologia e Etnologia di Firenze dove lavora dal 2008. Un luogo che, scrisse il primo direttore Felice Fontana nel Settecento, aveva raccolte che non dovevano soltanto appagare la “curiosità del popolo né servire al suo possessore, ma devono essere indirizzate verso la vera istruzione ed all’utile pubblico”. Con esemplari “resi parlanti da per loro” in modo che ciascuno potesse “conoscere tutto da sé solo, senza professore”. 

Nel contatto con le culture e gli oggetti delle collezioni del museo, Cataldo Valente ha trovato lo spunto per realizzare le 24 opere in tecnica pastello dei “Ritratti a tutto mondo”, volti di uomini e donne che rappresentano un inno alla diversità. A questi si aggiungono “I Musei nel Museo”, 12 opere realizzate con tecniche miste che compongono le sale di una pinacoteca illusoria.

Sei cresciuto proprio al centro dell’arte.

In quel crogiuolo fra Ponte Vecchio, piazza della Signoria e gli Uffizi. Precisamente in via dei Georgofili dove scoppiò la bomba nel 1993, ma io ero già venuto via. Però conoscevo la famiglia che restò uccisa nell’esplosione. Fa conto che all’epoca mia gli Uffizi erano gratis per i fiorentini. Sicché la domenica mattina spesso salivo lo scalone. E poi – bene, eh, che ora ci siano tutti questi turisti – negli anni Sessanta-Settanta non c’era nessuno. Come al Bargello adesso. Il direttore della galleria era quello che scoprì il polittico di San Giovenale del Masaccio, Luciano Berti. Mi ricordo anche l’Antonio Paolucci in bicicletta, quand’era giovane, che andava in via della Ninna, all’ingresso secondario. 

Quali erano le opere che ti colpivano di più?

Da bambino tutto. Entravi, vedevi le Maestà di Giotto, Cimabue e di Duccio ed eri già tramortito. Tu piccino e queste madonnonealte quattro metri, con tutto quell’oro. L’allestimento era meraviglioso, curato da Michelucci e Scarpa. Il finto marmo di Giotto mi impressionava perché sembravano dei quadri astratti. E poi Piero della Francesca. Con “La battaglia di San Romano” di Paolo Uccello entri in un mondo di sogni, nell’immaginario del medioevo: le disfide, le lance messe in prospettiva, il cavallo con le gambe quasi all’incontrario. Un altro quadro che mi faceva impazzire era la “Tebaide”, ora è attribuito a Beato Angelico e allora era dato a Gherardo Starnina. Non un numero uno, lo Starnina, ma era bravo anche lui. Passavo ore e ore a guardare quelle minuscole navi coi remi. Il termine Tebaide non lo capivo nemmeno (ride), poi ho saputo era una zona dell’Egitto dove i cristiani si isolavano. È un’immensa novella dipinta che ti raccontava tante storie, con i venti che soffiano sulle vele gonfie, il lupo sui monti, l’orso. 

Con chi andavi agli Uffizi?

Al principio col mio fratello maggiore che si chiamava Giuseppe e faceva l’ebanista. Io infatti l’intarsio l’ho imparato da lui e dal mio babbo. Erano grandi ebanisti, stavano in via dell’Anguillara. Facevano i famosi mobili maggiolini che ora quando vengono battuti all’asta raggiungono quotazioni milionarie. Aiutavo per l’intarsio sull’acero che è un legno molto chiaro: andava fatto il disegno a chiaroscuro, a tratteggio. 

Allestitore al museo di Antropologia e Etnologia e artista-artigiano. Sembri una figura speciale.

Abbastanza anomala. Sto facendo l’allestimento per una sala del Borneo. Ho fatto il progetto, certi mobili un po’ grossi vengono costruiti da un falegname esterno sotto la mia supervisione, faccio i supporti per mettere gli oggetti. Ho frequentato il liceo artistico, l’Accademia, poi mi sono iscritto a architettura. Ma ho seguito anche la bottega teatrale di Vittorio Gassman, con Eduardo De Filippo. Ho una lettera di Eduardo. Anzi una poesia.

Per te?

Per me. A Cataldo.

Racconta.

1980, il direttore del teatro della Pergola era Spadoni, l’assessore alla cultura Camarlinghi. La chiamarono bottega per indicare che l’attore è un mestiere. Gassman ci teneva. Al tempo lavoravo sia in famiglia che dal vecchio intagliatore Gino Doni che stava anche lui in via dell’Anguillara e aveva rifatto gli stalli del coro dell’Abbazia di Montecassino dopo il bombardamento. Credo addirittura fosse stato in bottega dei Coppedè, un rappresentante di quella tradizione fiorentina che, volendo, ti porta a Donatello, ad Arnolfo di Cambio. È finita negli anni Novanta. Se volevi imparare l’artigianato artistico ancora potevi. Ora che fai? Tornando al teatro: facemmo due mesi di stage con Eduardo che veniva quasi tuti i giorni nonostante, poverino, avesse subito un’operazione all’occhio e portasse un occhiale con un cerotto. Sembrava un’altra maschera delle sue: era accompagnato da una donna, non so se era la Marina Confalone. A gruppetti dovevamo scrivere una commedia “La bottega dell’orafo”, soggetto deciso da lui che dava consigli. Ci doveva essere una rapina, spiegò, i tagliatori di diamanti di Amsterdam, insomma un avvenimento o un personaggio che creasse interesse nello spettatore. Edoardo, di una bravura. Non serve a nulla dirlo, si sa. Si sa, ma tu lo dici avendolo conosciuto. Ci trasmetteva delle cose… Sembra quasi impossibile che una persona come lui fosse lì con noi. Riusciva a fartela sembrare facile. Insomma, mi ricordo la sua lezione dell’ultimo giorno, siccome mi aveva colpito Monica Vitti che recitava una poesia in un documentario su Eduardo alla televisione: “L’amore è una cosa che odora di rosa ma rosa non è. Indovina cos’è?” gli chiesi di scrivermela. Ce l’ho lì, tipo reliquia. A quegli altri studenti aveva scritto i classici: con affetto, con simpatia. 

Parlaci della tua mostra che è divisa in due sezioni.

“I ritratti a tutto mondo” è la cosa alla quale tengo di più perché è legata alla mia vita nel museo di Antropologia ed Etnologia. Da quando io lavoro qui tutte le volte che affronto l’allestimento di una nuova sala o se devo risistemare gli oggetti di una popolazione, nel prendere in mano un pettine, un cappello, ho bisogno di fare mente locale e immaginare chi l’ha usato, chi l’ha portato. Una delle prime sale che affrontai fu quella dell’India al piano terra e allora cercavo delle immagini di donne indiane, di ragazzi indiani, di un bel signore baffuto col turbante e quando ne trovavo una giusta mi divertivo a disegnarla, in modo immediato, veloce. Spesso lo facevo durante il tragitto verso casa, sul tram. Bastano un album da disegno, due matite Giotto. È un qualcosa di mio da aggiungere a una lacca, un avorio, un kamasutra. Poi ho riallestito l’Africa, l’America del Nord. Questo museo è fondato proprio sulla diversità dei popoli che sono riuniti qui e allora ho messo insieme i disegni sulla parete in una forma ovaloide, perché il mondo non è proprio tondo, ma un po’ schiacciato ai poli, e perché graficamente è meno banale, con cornici una diversa da quell’altra. È stato come mischiare le carte. Nella cultura odierna nelle città trovi accanto l’indiano, il sudamericano, il cinese. 

È la tua dimostrazione di affetto per l’umanità?

Sì, un abbraccio universale. Durante la pandemia, avevo tanto di quel tempo. Ho fatto anche un disegno al giorno. L’altra parte della mostra, “I musei nel museo”, invece è legata alla mia passione per la storia dell’arte che, come ti dicevo, è partita da bambino, nel vivere fra il Ponte Vecchio, gli Uffizi e Palazzo Vecchio, e continua. Per esempio, di recente mi son letto un libro su come facevano le colonne di Santo Spirito e San Lorenzo. Scolpire una colonna di San Lorenzo, renderla così perfetta. Il capitello. Poi trasportarla fino alla chiesa con le vacche. 

Ma c’è anche molto senso dell’umorismo nel museo che ti abita.

Sì, per non prendersi troppo sul serio. C’è uno dei quadri, quello dedicato ai geni del cubismo Braque e Picasso, in cui ho messo una cubista sul cubo.

https://www.meer.com/it/71338-intervista-a-cataldo-valente